È sicuramente uno dei designer più rappresentativi della creatività contemporanea.

Mescolando in giuste dosi irriverenza e spirito pop, conoscenze sartoriali e gusto per i coup de théâtre, per oltre tre decenni Jean Paul Gaultier è stato non solo l’enfant terrible della moda francese, pronto a stupire ad ogni sfilata, ma anche uno degli stilisti maggiormente riconosciuti e idolatrati.

Come ben prova una mostra a lui dedicata che ha girato il mondo, dopo l’inaugurazione a Montreal nel 2011, Gaultier è stato capace di uscire dalla nicchia dei fashion addicted, che tanto lo hanno osannato, per diventare figura conosciuta al grande pubblico e lo ha fatto grazie alle sue testimonial, da Amanda Lear a Beth Ditto, da Kylie Minogue a quella Madonna che indossando un body dorato coi seni a cono lo ha fatto entrare nella storia del costume, ma non solo.

Ci è riuscito anche, e soprattutto, grazie ad una moda che è stata attenta al mondo circostante, capace di cogliere messaggi sociali, vera cartina tornasole dei cambiamenti.
A Gaultier si devono sfilate in cui si inneggiava alla multiculturalità, collezioni che hanno esplorato il concetto di genderless ben prima che diventasse termine da telegiornale, abiti in cui il sopra e il sotto, il fuori e il dentro si sono scambiati di posto, giocando con la gravità, in cui la sensualità è stato al servizio del cambiamento nelle abitudini della gente.

Non è un caso che, nel realizzare costumi per il cinema, Gaultier abbia scelto il futuro di “The Fifth Element” di Luc Besson e la critica alla tv spazzatura di “Kika. Un corpo in prestito” di Almodovar, regista al quale spesso è stato paragonato per irriverenza, ma anche per acume e sguardo tagliente.
Nel suo percorso Gaultier è andato spesso a sottolineare nuove tendenze, ma anche come queste si intersecavano con il nostro heritage, le nostre radici.

In tal senso va vista una famosa collezione ispirata al guardaroba tradizionale degli ebrei chassidici e quella che forse più lo rappresenta negli anni Novanta: la collezione per la s/s 1994.
In un gesto quasi naturale, per quanto rivoluzionario, lo stilista propone un melting pot vestimentario, dove la sua marinière incontra capi provenienti da altre culture, dove il kilt e gli anfibi sono indossati da modelle dal cranio rasato e tatuato, ma anche da personaggi che vengono dalla strada, pieni di piercing, dove protagonisti sono proprio i tattoo sulle magliette in tulle, sulla pelle dei modelli, sui capi aderenti e body conscious.

Il risultato finale è un guardaroba che sposa la silhouette del diciottesimo secolo con l’attitudine dei club kids newyorchesi, andando a sdoganare uno stile che fino a quel momento era riservato a manifestazioni del settore.
Non abbiamo più guardato ai tatuaggi allo stesso modo, una generazione ha scoperto quanto possa essere affascinante portare simboli, linee, colori e immagini sulla propria pelle, mentre il piercing ha acquisito una valenza mainstream, uscendo dai ritrovi underground e dai libri etnici.

E ora, con un gesto altrettanto incisivo, come i suoi anni in passerella, Jean Paul ha deciso stagione dopo stagione di lasciare interpretare il suo lascito e il suo percorso ad altri creativi, la cui interpretazione scatena sempre più in noi spettatori meraviglia e la voglia di avere ancora creazioni di questo genio.
Per questo attendiamo con ansia l’arrivo in Italia a marzo a Milano al Teatro Arcimboldi dello spettacolo “Jean Paul Gaultier -Fashion Freak Show” ovvero 50 anni di cultura pop attraverso gli occhi di une delle icone della moda dei nostri anni.

Non ci resta che dire: Vive Jean Paul!