Romana, classe 1983, da tempo presenza fissa sulle passerelle milanesi con la sua collezione, Francesca Liberatore da sempre è stata una delle figure più internazionali del made in Italy.
Una laurea in Fashion Womanswear al Central Saint Martins di Londra, esperienze negli uffici stile delle più prestigiose maison in giro per il mondo, come Viktor & Rolf e Jean Paul Gaultier poi dopo la vittoria nel 2009 del concorso Next Generation, ha portato la sua linea da Londra a Canton, da Varsavia a New York, diventando ambasciatrice della creatività italiana nei poli più distanti del Globo, chiamata anche ad insegnare nelle migliori scuole e come esperta internazionale per le Nazioni Unite.
Capacità e passione, ma anche una voglia di aprirsi e raccontarsi che mi hanno sempre reso simpatica Francesca a pelle e nel tempo ho avuto il piacere di incontrarla più volte, di fare collaborazioni con lei, oltre ad essere ospite delle sue sfilate, che mi hanno sempre colpito per la profondità dei riferimenti culturali e uno storytelling preciso.
L’ho raggiunta di recente anche incuriosito da un nuovo progetto portato avanti insieme al padre artista.
Con piacere condivido con voi le mie 4 domande a Francesca Liberatore.
Come è cambiata la tua moda negli anni è come sei cambiata tu lavorando nel mondo della moda?
Il cambiamento è una costante nella mia moda, anche se sono felice quando le persone ci riconoscono uno stesso stile o elementi che mi caratterizzano.
Prima ero più volta alla “creazione” del capo, ora alla “collezione” come contenitore anche del pubblico stesso.
Alla base ci sono sempre le mie storie, valori, immagini, interessi, punti di vista, idee su cui mi piace riflettere e cose che mi interessa guardare e su cui vorrei spingere altri a soffermarsi, in un continuo dialogo tra me, la mia opera, e chi ne fruisce.
Prima magari era più un “me e la mia creazione” a generare entusiasmo, ora io e il mondo intorno che mi sostiene, i team che mi aiutano, lo spettacolo in cui immergiamo tutto di noi e tutti per quei 15 minuti, in uno scambio irrinunciabile di commenti, adrenalina, visione, caratteri.
Sicuramente il rapporto con la società circostante, l’indagine dell’altro nei sui desideri e comportamenti, mi ha sempre incuriosito, sia che emergesse questo da un quadro, da un film, da una persona in metro, da un amico, sicuramente con il tempo passato, i luoghi visitati, le culture conosciute, le persone e i pubblici in giro per il mondo si è amplificato questo desiderio di vedere nella trasposizione delle mie collezioni sui diversi mercati la vera sfida.
Ci racconti di questo nuovo progetto legato alla città di Ferrara?
Come hai scelto quel luogo specifico?
Ferrara la trovo una città metafisica, perfetta nella linearità e disposizione delle sue piazze, vie, palazzi, in completa armonia e proporzione, un luogo dove ho trovato nelle persone cultura, positiva ricezione del progetto e accoglienza, oltre alla dinamica modernità con festival e iniziative.
Inoltre non da meno una delle prime mostre di mio papà fu proprio voluta e ospitata a Palazzo dei Diamanti quindi ci sembrò una bella coincidenza quando trovammo l’ex Chiesa San Michele.
L’abbiamo acquistata e trasformata in una sede creativa e di confronto tra generazioni, periodi artistici differenti, eventi culturali di diversa natura, pubblici da ogni parte del mondo, studenti, appassionati, addetti ai lavori e curiosi, nello spirito di contaminazione e imprevedibilità che contraddistingue la mia moda, l’arte di mio papà, e la capacità istrionica di mia mamma di scovare l’inusuale reinterpretandolo con raziocinio.
Questa è (e lo sarà sempre di più) sede di eventi, talk, presentazioni, lectures, insieme alla città stessa e in collaborazione con altri suoi luoghi, come ad esempio durante l’inaugurazione che ha visto la mia sfilata ospitata da Palazzo dei Diamanti con il patrocinio del Comune di Ferrara e Ferrara Arte e il party e talk “@inside_sanmichele”.
Quale è secondo te la percezione che la gente ha della moda oggi e cosa è visto in maniera non corretta?
La differenza tra immagine e prodotto. Mi hanno insegnato che un mio capo doveva: vivere anche da solo su una stampella; creare uno statement senza tempo interpretando il reale con altri occhi; essere appropriato al tipo di corpo in funzione del rispetto verso l’altro e la sfida creativa.
Oggi se non ci fosse un super lavoro di styling e marketing alcuni capi e brand probabilmente non avrebbero senso di esistere. Oggi un brand ambisce esattamente a quello che la gente vuole, in nome del mercato contemporaneo, quando invece la creatività in quanto mai esplorata presuppone il rischio del test.
Infine oggi piuttosto che sfidarsi a creare un’estetica adatta alle caratteristiche di corpi, o modi di essere, parliamo di genderless e inclusione volendo mettere tutto a tutti in funzione di un’immagine irriverente, quando siamo noi i primi a indossare alcune cose e non altre.
Quanto sono importanti per te concetti come eco-friendly, genderless… molto cari alle nuove generazioni?
La moda può promuovere valori?
La moda DEVE promuovere valori, siano questi movimenti rivoluzionari, odi alla bellezza, stimoli creativi, messaggi etici etc… la moda è sempre stata un’espressione della società, l’ha interpretata, tradotta, obiettata, spinta all’evoluzione.
Questa è stata prerogativa di quei maestri e persone che hanno avuto visione, coraggio, desiderio non comune, di portare avanti nonostante tutto un credo diverso e che ha prodotto quello che è arrivato fino a noi.
I concetti a cui fai riferimento sono importanti per me come individuo e così come dovrebbero esserlo per tutti, ma sottolineo nella loro “naturalezza”.
La cosa peggiore che la moda e il suo marketing stanno facendo è renderli etichette, diverse da altro, accettate, riconosciute, quando invece penso sia nella reale “noncurante” consapevolezza il vero sintomo di libertà e attenzione delicata.