Conosco Serena da un po’ di anni, da quando era nella redazione di un noto allegato femminile di moda, grazie ad amicizie comuni legammo subito, anche perché entrambi innamorati della moda e sempre pronti a volerne sapere di più.
Poi mi chiamò a collaborare con un giornale che io amavo molto, un mensile del gruppo editoriale l’Espresso che purtroppo ora non esiste più, cioè Velvet, ero un contributor esterno, ma tuttora sono molto fiero di avere partecipato nel mio piccolo a quel bellissimo progetto.
Alla sua chiusura Serena Tibaldi ha continuato il suo lavoro all’interno del gruppo dove è ora fashion editor per il quotidiano La Repubblica e per il suo allegato di moda D, diretto da Emanuele Farneti.
In realtà il termine fashion editor a mio avviso non rappresenta appieno quello che Serena è, una di quelle figure del fashion system che un tempo si sarebbero forse chiamate “critiche di moda”, per la sua enorme preparazione e la capacità di contestualizzare sempre quello che sta succedendo nel campo dello stile in maniera precisa e puntuale.
Sono molto contento che la protagonista di questo “4 domande a…” sia Serena Tibaldi.

Serena, ti conosco da un po’ di anni e in questo percorso sono cambiate tante cose, dai nomi del fashion system al modo di fare questo lavoro.
Mi dici come sei cambiata tu in questi anni e come vedi questo sistema che subisce terremoti e scossoni ogni giorno?
Come sono cambiata io: in realtà, di base l’entusiasmo e la curiosità sono gli stessi di quando ho iniziato.
Ovviamente sono molto meno impressionabile, e il mio senso critico è più affilato ovviamente.
E ho imparato a essere sul lavoro molto, ma molto, meno ansiosa, col quotidiano impari l’arte della procrastinazione.
Com’è cambiato il sistema? Beh, abbiamo assistito all’ascesa e alla quasi scomparsa degli influencer, gli stilisti cambiati dalla sera alla mattina, la cancel culture, gli scandali…comunque, il vero cambiamento è il fatto che ormai la moda è in mano ai colossi finanziari, quindi le priorità sono diverse rispetto a prima.
Non è una critica, è un dato di fatto.

Mi racconti il momento più emozionante vissuto in questi anni e quello più folle o divertente?
Onestamente, quando mi fermo a pensarci, mi pare tutto abbastanza incredibile: intendo l’essere dove sono arrivata in generale.
Detto questo, credo che il momento più surreale sia stato un po’ di anni fa, a Miami: ero lì con Bulgari per Art Basel, ci hanno portato al galà di beneficenza organizzato da Madonna, pochissime persone tutte stra-famose (tranne noi), con asta battuta da Madonna e suo concerto per noi 100.
E, soprattutto, afterparty nella suite di Sebastian Faena (letteralmente saremo stati 50), con Leo Di Caprio e Sean Penn che chiacchieravano in terrazzo, Rosario Dawson e la madre che ballavano, Chris Rock e Courtney Love… e me e il collega Cristiano Vitali che facevamo gli splendidi cercando di non svenire.
Tanta, tanta roba. Dopodiché te lo ripeto, mi do un pizzicotto ogni volta che chiacchiero con Armani, ecco.
Ah, tra i momenti più incredibili recenti aggiungerei anche la sfilata di gennaio di Margiela.
Sono uscita ridendo perché non riuscivo a processare la bellezza di quello che avevo visto.

Con tutto quello che sta succedendo nel mondo, secondo te alla gente interessa ancora la moda?
Assolutamente, alla gente la moda interessa e interesserà sempre.
Proprio per questo credo che la frustrazione per i folli aumenti dei prezzi crescerà sempre di più: la moda si basa sul desiderio, ma così si sta staccando troppo dal pubblico “normale”, che è giustamente sempre più arrabbiato.
Comunque, per fartela breve, che sia la voglia di possesso, quella di esibire uno status o anche solo l’interesse nel fenomeno sociale, la moda attira e attirerà sempre.

Mi dai tre nomi di persone del fashion system che secondo te lasceranno il segno da qui in avanti?
Allora, non è semplice immaginare chi e cosa lascerà il segno, ci sono troppe variabili indipendenti, ahimè.
Comunque, direi Francesca Bellettini, perché nel ruolo che ha oggi in Kering dove è deputy CEO del gruppo, può fare davvero epoca.
Jonathan Anderson, che è scontato, ma che per me oggi rappresenta uno dei pochissimi direttori creativi (per JW Anderson e Loewe, ndr) nel senso più vero del termine, e penso che il suo essere multitasking sia davvero moderno.
E poi aggiungerei Brian Molloy, uno stylist che amo molto e che per me oggi rappresenta l’idea di stile più giusta e moderna.

Serena Tibaldi